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Diario di un faker sentimentale

02
Apr 2017

“Yet what can satire, either grave or gay?…

What vice has it subdued? Whose heart reclaim’d

By rigour? Or whom laughed into reform?

Alas! Leviatan is not so tamed.”[1]

William Cowper, 1785

Che io sia l’autore di Gianni Kuperlo, il profilo fake di Cuperlo, ormai lo sanno in tanti. Che a Kuperlo voglia molto bene, si capisce con estrema chiarezza. È stata la cosa giusta al momento giusto, per tanti motivi. Dal punto di vista “twittero”, ha avuto il grande merito di approdare su Twitter prima del vero Cuperlo e da qui ne discendono, perlomeno nella prima fase, le caratteristiche e il successo.

Gianni Kuperlo è nato da manuale dei fake: era pienamente “mimetico”. Non aveva la k, aveva una bio ambigua che sembrava vera, il falso si riconosceva (ma bisognava essere molto attenti) solo dall’immagine del profilo: una scritta PCI. Soprattutto, i tweet mescolavano serio e faceto, erano iperbolici, paradossali, ma verosimili.

Cos’ha prodotto questa prima fase del fake di Cuperlo? L’approdo su Twitter del vero Cuperlo è stato velocizzato, perché io venivo scambiato per lui da giornali autorevoli, provocando un certo numero di guai e incidenti diplomatici.  Ne cito uno per tutti, ma sono decine. Non ricordo esattamente cosa fosse successo (d’altronde nel PD ogni giorno ne succede una), ma ricordo che era la fase di Epifani reggente e del congresso – gatto di Schroedinger: c’era e non c’era allo stesso tempo. Epifani aveva pronunciato una frase riguardo al tirare troppo la corda, e io ho chiosato che la corda non andava tirata troppo, sennò si sarebbe rotta e non si sarebbe potuta usare per impiccare il PD. Dopo pochi minuti sono finito, insieme ai dissidenti “classici” come Civati, sulla home di Repubblica.

La lezione che se ne trae è abbastanza ovvia nella teoria, ma nella prassi è ben lungi dall’essere acquisita: nella politica ai tempi di Twitter, il confine tra vero e verosimile è sempre più labile. Nella Prima Repubblica non mancavano di certo chiose velenose e battute al vetriolo, molto più al vetriolo dei miei tweet. Semplicemente, avevano il crisma dell’ufficialità perché o pronunciate di persona, o diramate tramite una nota, o affidate a un custode della mediazione con l’opinione pubblica (un giornalista). Nel 2016, verificare le fonti è molto più difficile, per i tempi molto più veloci con cui viaggia la politica e perché ognuno parla da sé. Davvero un lavoraccio per le redazioni, un brodo di giuggiole per gli spiritosi come me.

Degno di nota è stato anche il successo del profilo. Questo implica che io stessi raccontando, a colpi di tweet, una storia che esisteva davvero. Twitter è spietato: se non racconti bene, o racconti qualcosa che non ha fondamento, nessuno ti seguirà. E la storia era quella di un mondo che tentava disperatamente di resistere all’invasione renziana: un mondo fatto di Sezioni, tessere, cineforum, sindacati, cantautori, Nanni Moretti. Un mondo che si stava estinguendo, e io ne stavo cantando a mio modo l’estinzione, esacerbandone le contraddizioni e i tic.

Siamo nel 2016, e quel mondo si è estinto davvero con una rapidità disarmante. Cuperlo dopo le primarie non ha occupato più i riflettori, e io mi chiedevo cosa ne sarebbe stato di un profilo che aveva basato la propria storia sul rapporto simbiotico con il malcapitato a cui era stata presa in prestito l’identità.

E invece Kuperlo è più vivo che mai e lotta insieme a noi. Non potendo più sfruttare l’ambiguità, non potendo fare il verso a Cuperlo perché Cuperlo era evaporato, si è messo a fare il verso alla realtà: è diventato un profilo di satira sulla politica, specialmente sul PD, a 360 gradi.

Questo non solo è molto più stimolante, ma permette di porsi molte più domande “serie” sul rapporto tra i social media, la satira e la politica. Kuperlo è cresciuto, e io con lui.

“Internet ha ridotto il mondo a un discorso”[2], e il discorso sulla politica è diventato sempre più pervasivo, strumentale, distorcendo l’equilibrio tra il significato e il significante. La realtà è diventata una metafora, per dirla con eleganza, un pretesto per dirla brutalmente. A cosa serve quindi un fake? Perché fa ridere? Perché l’identità celata permette di far collidere in maniera molto più potente i vari piani del discorso, facendo emergere il grottesco. Solo un bambino può dire che il re è nudo, un fake può giocare a denudare il potere.

Però viene lo stesso da chiedersi se, per il solo fatto che anche io parli di un potere e compia il gesto dell’abitare (scrivendo) un sistema, non finisca io stesso per legittimare quel che certe volte penso di denudare. È una domanda che si pone chiunque eserciti una forma di pensiero critico sulla realtà: ne “Gli Anni”, l’autrice e voce narrante Annie Ernaux si chiede se la propria vita da intellettuale di sinistra, a criticare un sistema, non sia stata in fondo una forma di legittimazione del sistema stesso.

La risposta che mi do è che non possiamo prevedere cosa capirà chi ci legge, come userà le nostre parole, quanto saranno distorte rispetto all’intenzione che le ha mosse. Se dovessimo aspettare di avere queste certezze prima di parlare, il mondo magicamente ammutolirebbe. Certo, ci sono le categorie dell’etica e della responsabilità a guidare la scelta di parlare e la scelta delle parole, ma non sono una garanzia totale. Tendo quindi a guardare la questione dall’altro lato: perché si decide di parlare. In questo caso, perché si fa satira. La satira è una delle espressioni del sentimento, per dirla con Camus, che accomuna tutti gli uomini: la rivolta. Tutti siamo più o meno insoddisfatti della realtà, tutti ci ribelliamo contro di essa. “Mi rivolto, dunque siamo”, scrive Camus. La misura, secondo me è quindi contenuta nelle conseguenze della rivolta: la libertà e la passione con cui si parla, si scrive, si vive.

La satira, anche nella forma di un fake, non è altro che questo: rivolta, libertà, passione. Chi ha la fortuna di ridere molto, sa che la risata nasce da queste tre cose. E saperle condividere, nella forma di una risata in 140 caratteri, è davvero un grande privilegio, che mi ha arricchito. E quindi, grazie di tutto, Kuperlo.

[1] E tuttavia che può fare la satira, sia essa seria o gaia?…Che vizio ha eliminato? Qual cuore ha riscattato? Chi ha indotto a riformar con la risata? Ahimè! Del Leviatano la fin non è arrivata.

[2] Annie Ernaux, “Gli anni”.

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